Il dramma del nostro tempo è che il tetrapak non si può riciclare.
Non si può buttare nella plastica perchè è fatto anche di carta, ma non lo puoi mettere nella carta perchè ovviamente c’è un po’ di plasticaccia e, per complicare ulteriormente le cose, c’è anche una buona percentuale di alluminio che lo rende proprio inadatto ad essere ospitato in qualsiasi delle campane per la raccolta differenziata della rumenta.
Tristemente lo si colloca in quella selva di rifiuti che non sono “né carne né pesce” e che chiamiamo secco non riciclabile, oppure rifiuti indifferenziati.
L’indifferenziato è una cosa strana, è un’insieme di cose diverse che, proprio per il fatto di essere molto diverse fra loro e soprattutto da quelle riciclabili, vengono messe tutte insieme.
Cioè un insieme di tutte quelle cose che non rientrano negli altri insiemi.
È qualcosa di magico.
Solitamente le cose vengono messe insieme per somiglianza, in questo caso accade completamente l’opposto: si unisce tutto ciò che non si somiglia per niente. È quasi un controsenso in termini, e i controsensi sono sempre interessanti. Tranne quando stai guidando la macchina, allora sono molto pericolosi.
Indifferenziato è anche il nostro pensare, per lo meno al principio del pensiero.
Quando ero bambino, per addormentarmi, facevo sempre lo stesso gioco: chiudevo gli occhi e cercavo di “vedere” qualcosa ad occhi chiusi.
Lo so, è idiota cercare di vedere qualcosa ad occhi chiusi ma, la cosa stupefacente, è che non c’era sera in cui non vedessi qualcosa.
Dopo pochi minuti di attesa succedeva sempre che cominciavano a formarsi, nella mia mente, delle immagini strane…
Era un insieme di forme inddifferenziate che si trasformavano continuamente in altre forme e avevano colori mutevoli e sempre affascinanti.
Un po’ quello che accade quando ti premi con un forza i palmi sugli occhi.
Oppure quello che succede quando ascolti una canzone con Windows Media Player. Ma è decisamente più fico premersi i palmi sugli occhi.
Piano piano quelle immagini assumevano una forma più concreta, anche se era ancora difficile stabilire cosa fossero. Era come guardare le nuvole. In effetti più si guardano le nuvole e più ci si accorge che la loro forma non è casuale, ma assomigliano sempre a qualcosa. Basta darsi il tempo per osservarle.
Forse, scientificamente parlando, sarebbe più corretto dire che è il nostro cervello a cercare di dare forma laddove magari forme non ci sono, però a me piace molto di più pensare all’opposto.
Sono le nuvole, o le immagini che si vedono ad occhi chiusi, che hanno una forma precisa, che noi dobbiamo trovare e, questa forma, scaturisce magicamente da un insieme indifferenziato che forma non ha.
E’ un po’ come se ci fosse un grande calderone in cui bolle un miscuglione di tutte le cose, e che il cervello abbia la meravigliosa capacità di prendere quel “mega-brodone” e trarci fuori qualcosa di conosciuto.
Che in fin dei conti è quello che succede anche con i nostri sensi.
Basta pensare, ad esempio, a quando dobbiamo ascoltare a lungo persone che parlano una lingua a noi sconosciuta. All’inizio ci sembra di non capire nulla ma, alla lunga, cominciamo a comprendere la logica di quella lingua e, pur continuando a non comprendere nulla del loro significato, cominciamo però a fare l’orecchio a quei suoni che prima ci apparivano così strani.
Stessa cosa accade con la vista: quello che vediamo è in stragrande maggioranza un’immagine mentale costruita dal cervello sulla base di piccoli brandelli di informazione che arrivano dagli occhi.
Da queste piccole informazioni il cervello costruisce, utilizzando in buona parte le nostre esperienze pregresse, l’immagine di ciò che vediamo. E’ il motivo in cui caschiamo facilmente nelle illusioni ottiche o del perché, in certi giorni, sia così difficile trovare il barattolo di fagioli nella dispensa.
Non è che i fagioli non ci siano, è che noi ci aspettavamo un barattolo di latta, mentre questa volta sono nel barattolo di vetro. E il nostro cervello semplicemente esclude quell’immagine perché non è quella che cerca e tu i fagioli non li trovi.
Quindi possiamo dire che il cervello è una grande macchina decodificatrice che trova una forma e un significato a quelle cose che forma e significato non hanno.
Praticamente un miracolo.
Per questo hanno ragione i grandi mistici quando dicono che ciò che ha forma deriva da ciò che non ha forma, che ciò che ha significato deriva sempre da ciò che significato non ha e che anche ogni colore deriva dall’assenza di colore o dalla compresenza di tutti colori insieme.
L’esistenza di qualcosa deriva dall’inesistenza delle cose. La vita deriva dall’assenza di vita o meglio da quel mondo affascinante in cui la vita e la morte sono la stessa cosa, in cui non c’è differenza fra le due.
È realmente affascinante osservare le cose come farebbe un mistico, cercare di osservare la magia che c’è nelle cose ma soprattutto “dietro” di queste, ma sono certo che se fermassi il mio vicino di casa in ascensore per condividere con lui questi pensieri chiamerebbe la neuro deliri.
O forse no.
Forse ho un preconcetto nei confronti dei miei vicini di casa.
Comunque sia, è essenziale capire che se il nostro cervello codifica la realtà che abbiamo di fronte attraverso il filtro dei giudizi e delle esperienze passate, cambiare un pochino il nostro modo di intendere le cose obbliga anche il cervello a “ridefinire” l’immagine che ha del mondo e questo è davvero entusiasmante.
Nella maggioranza dei casi è la nostra pigrizia a non voler spostare il nostro punto di vista a farci vedere le cose sempre nello stesso modo, se avessimo un po’ di curiositá in più si aprirebbero mondi che oggi definiremmo magici e incredibili.
Pensiamo ai colori: l’occhio di un europeo medio vede circa 5-6 toni diversi di bianco.
Un eschimese medio ne vede oltre 70 e ha 40 nomi differenti per definirli
C’è il bianco della neve appena caduta, il bianco della neve già compattata, il bianco del ghiaccio millenario, quello degli iceberg che vagano solitari nel bel mezzo del nord dell’atlantico.
Ora, meccanicamente il mio occhio e quello di un abitante degli igloo funziona nel medesimo modo, quello che differenzia la nostra percezione dei colori è che l’eschimese è talmente abituato a vedere cose bianche che ha sviluppato la capacitá di accorgersi della differenza di colore fra una montagnola di neve in lontananza e la pelliccia di un orso polare affamato. Il che, capirete, è di importanza fondamentale se voi sopravvivere in Groenlandia.
Ma non sono solo gli ambienti selvaggi a stimolare la nostra capacitá di vedere, anche noi uomini “civilizzati” abbiamo sviluppato dei super poteri. Noi vediamo oltre 100 toni diversi di grigio, e questo è meraviglioso, anche se dovrebbe farci riflettere molto sull’uso che facciamo del colore nelle nostre città.
Come l’eschimese, anche per noi, accorgersi della differenza di grigio fra l’asfalto di una strada e il marciapiede potrebbe voler dire tornare a casa con le nostre gambe oppure accompagnati dall’ambulanza.
Quindi è solo questione di abitudine.
Come la “bravura” nel vedere dentro gli scarabocchi.
Se prendi una penna, fai uno scarabocchio su un foglio e cominci a guardarlo, nel giro di poco, da quell’ammasso indifferenziato di linee, vedrai comparire qualche forma conosciuta.
Capita sempre.
Basta abituare un pochino la mente ed il gioco è fatto.
Sospetto che sia lo stesso meccanismo delle macchie di Rorschach, quelle che usano gli psicologi.
-cosa vede in questa macchia?-
-ci vedo una casa di campagna-
– bene, lei ha un desiderio inconscio di giacere con sua nonna-
-MIA NONNA? Ma lei l’ha mai vista mia nonna?-
Al di la delle battute sugli psicologi, che è noto non portano molta fortuna, trovo che il meccanismo con cui il nostro cervello codifica le forme sia un Mistero Supremo.
Come si parta da uno scarabocchio, da una nuvola, o da un fondo di caffè per arrivare a vedere case di campagna, animali mistici, o pacchi di merendine piene di conservanti è una roba che per me ha dell’incredibile.
Sospetto, ormai da tempo, che di tutte le teorie con cui l’uomo ha cercato di spiegarsi questo meccanismo nessuna abbia mai colto veramente nel segno.
Certo oggi abbiamo decine di spiegazioni interessanti, alcune geniali altre più disparate, ma tutte le teorie hanno una falla importante. Si concentrano troppo sulla spiegazione.
Dando una spiegazione si perdono la magia dell’evento.
Forse bisognerebbe cominciare a pensare di accettare il fatto che ci sono misteri che è bene rimangano tali.
Cioè, in alcuni casi, è meglio smettere di cercare una risposa.
Lo so che sto contraddicendo buona parte del pensiero Occidentale che vuole ogni cosa come spiegabile, e se non è spiegabile allora non esiste, ma lo ripeto: meglio che alcuni misteri rimangano tali.
Il fatto è che è tutta una questione di attenzione.
Nella maggior parte dei casi, quando ci diamo una spiegazione di una cosa, smettiamo di osservarla attentamente, spostiamo altrove la nostra attenzione.
E’ come quando troviamo un oggetto strano in qualche cassetto perduto di casa, o per terra da qualche parte.
Avrete notato che la nostra curiosità nei riguardi dell’oggetto fa si che noi lo osserviamo con la massima attenzione, alla ricerca di un qualche indizio che ci possa far capire a cosa serve o da dove derivi.
Poi trovata la soluzione, immediatamente l’oggetto perde interesse, ce lo dimentichiamo in 3 minuti.
Oppure come i giochi di prestigio: se vi è mai capitato di farvene spiegare uno avrete sicuramente notato che immediatamente dopo la spiegazione, quello che prima era un evento magico, diventa una banalità da tre soldi.
Quindi non penso che sia inutile cercare una spiegazione, penso che accettare una spiegazione per questo fenomeno sia perlomeno pericoloso.
La pericolosità sta proprio nel darsi spiegazioni, nello spostare l’attenzione, perché così facendo smettiamo di osservare con precisione le mirabolanti forme delle nuvole in cielo, perchè quelle sono “solo” agglomerati di vapore acqueo mossi dal vento, così come gli scarabocchi sono “solo” espressione del nostro nervosismo mentre siamo al telefono, e in fondo alla tazzina non c’è l’immagine di qualcosa di speciale ma “solo” la constatazione che il caffè che fa la mia macchinetta è decisamente scadente.
Tutte cose noiosissime.
Mi chiedo: ha senso sacrificare la magia che sta nella nostra capacitá di veder forma in ciò che sembra non averne, barattandola con qualche spiegazione che anche se precisissima è evidente che rimarrá sempre parziale?
Bisogna essere consapevoli che della realtà non possiamo che avere un giudizio soggettivo, quindi parziale e falsato. Io vedo una cosa grigia, un eschimese la vede bianca.
Chi ha ragione?
Ognuno nella sua esperienza, ma oggettivamente la ragione non ce l’ha nessuno.
Questo vale per tutte le nostre credenze: per noi sono idee irrinunciabili, per altri sono “solo” mobili in cui riporre i piatti.
Per questo diversi secoli fa alcuni filosofi greci erano arrivati al concetto di “sospensione del giudizio”.
Non mi interessa giudicare una cosa, comprenderla, catalogarla in termini assoluti. L’unica cosa che è logico fare è sospendere il mio giudizio sulla cosa e semplicemente osservarla, tenendo bene a mente che la mia visione, qualsiasi essa sia, sarà parziale e soggettiva.
Idee molto simili a quelle orientali.
Osservare come se non si conoscesse nulla, come se fosse la prima volta.
Più facile a dirsi che a farsi, ma se non si comincia non si arriva.
Questo è il motivo per quale, per me, in questo caso, è meglio non cercare la spiegazione del perchè io veda in una macchia una casa di campagna, mentre un altro un cielo stellato, ma è molto più furbo continuare a godersi la magia dello scarabocchio che improvvisamente prende vita, dell’indifferenziato che assume una forma (qualsiasi essa sia), e della macchia d’umido sul soffitto che ricorda tanto la forma della focaccia che mangiavo da bambino.
(Per correttezza devo ammettere che la battuta sulle macchie di Rorschach è una scopiazzatura, pessima, di una battuta molto migliore di Beppe Grillo)